
Quando parliamo di pinsa immediatamente colleghiamo la figura del forno a quella
della pizza. Un errore che possono commettere in molti pur essendoci delle differenze sostanziali davvero evidenti sia nella struttura che nella storia. Quello che ci interessa però è la pinsa romana dalla sua origine fino ai nostri giorni. Cosa accomuna questo prodotto da forno e farina al territorio del Rubicone? La risposta più che valida ci viene suggerita dalle fonti storiche che ci rimandano alla figura del legionario e alle tecniche di cottura utilizzate negli accampamenti militari: conosciamo abbastanza dettagliatamente la dieta dei legionari romani attraverso le molteplici note contenute nella Historia Augusta, ma pure da Cassio Dione, da Plinio il Vecchio e da Tacito.
Occorre anzitutto sfatare una poco documentata diceria secondo cui i soldati romani mangiassero poco e male perché è vero che il legionario doveva marciare in
continuazione, doveva portare carichi enormi e spesso affrontare battaglie o climi
freddi e umidi ma senza una adeguata alimentazione non avrebbero mai potuto
sopportare queste immense fatiche. I pasti del legionario erano generalmente 3:
- colazione: pane (o gallette di farro), miele, formaggio, avanzi della cena, talvolta
frutta, acqua e aceto o vino; - pranzo: verdura, lardo, gallette e legumi (talvolta pesce affumicato);
- cena: pane, focacce, zuppa di cereali, talvolta carne (inizialmente poca poi
dall’incontro con popoli del nord ne aumentò il consumo). Il pasto principale era alla sera prima del tramonto, ed era il pasto più abbondante ed energetico.
Come si vede il pane era l’alimento base, anche come gallette. Naturalmente oltre i confini la dieta dei legionari variava a seconda di quello che i luoghi offrivano ma solitamente i castra erano spesso visitati da venditori ambulanti. Il territorio che brulica di genti attorno al fiume Rubicone, era uno spazio concentrato sul concetto di coltivazione e di allevamento, povero ma efficace. Non dimentichiamoci di considerare i territori limitrofi o comunque adiacenti alla Romagna che invece erano molto più ricchi di allevamenti e questo comportò una notevole differenziazione tra quelle che sono le tradizioni Emiliane e quelle, perciò, Romagnole.
Il concetto di pinsa romana come lo conosciamo noi, gravita attorno a tante realtà territoriali di panificazione, basti considerare la più che celebrata piadina: un composto di farina povera e acqua cotta sul testo e poi successivamente arricchita con strutto.
Le sue origini, però, partono da molto più lontano. Già al tempo degli Etruschi, nelle zone dell’odierna Romagna, sono state rinvenute tracce dell’utilizzo di un sostituto del pane fatto con farina grezza, cerali e di forma circolare.
Durante l’epoca romana si hanno numerose testimonianze dell’uso di sostitutivi del pane, realizzati con cerali grezzi e accompagnati, come ai giorni nostri, con dei formaggi. La tradizione della Piadina è proseguita lungo i secoli, ritrovando un suo sviluppo nel Medioevo, quando gli abitanti della Romagna cominciarono a utilizzarla con i cereali poveri per non incorrere nella tassazione che subiva il grano – e quindi il pane – da parte dei proprietari terrieri. Nel 1371, infatti, il Cardinale Angelico annoterà che, tra i tributi che la città di Modigliana, in provincia di Forlì Cesena, doveva pagare alla Camera Apostolica, figuravano due “piade”.
Ma allora perché la pinsa può essere associata alla tradizione Romagnola? In realtà non ne fa parte, perché nasce nel Lazio ma i romani, spostandosi, hanno di sicuro influenzato la nostra storia archeogastronomica. il nome stesso verrebbe dal participio latino “pinsum” o “pistum” di “pinsère”, cioè “allungare”, proprio la forma della nostra pinsa dovuta all’azione manuale di stesa dell’impasto.
Secondo alcuni è il frutto della genialità contadina. In tempi di carestia non ci si poteva permettere il lusso di sprecare nulla, e quindi parliamo di farina poco lavorata, poco setacciata, con cui crearono un impasto a lunga lievitazione, da condire poi semplicemente con olio, sale e salvia. Secondo altri le origini vanno cercate più lontano nel tempo. Pare che nel VII libro dell’Eneide, dove si parla dell’approdo di Enea e del benvenuto di Latino e della figlia Lavinia, si specifica che vennero offerti prodotti locali molto in uso tra gli agricoltori, tra i contadini, del luogo. “Eran su l’erba agiati; e, come avviso creder si dee che del gran Giove fosse, avean poche vivande; e quelle poche gran forme di focacce e di farrate…”. Quindi esplicito riferimento a una forma grande di focaccia.
Comun denominatore, secondo noi, sembra essere l’utilizzo per il sostentamento ed il metodo di cottura in loco durante gli spostamenti, come per il bucellatum, un equivalente della galletta moderna.
In genere era un impasto di farina di grano duro, acqua e sale, talvolta impastata con acqua e olio d’oliva, talvolta addirittura con lo strutto (piadina?).
Questo cibo veniva cotto al campo e trasportato durante le marce, talvolta cotto negli accampamenti provvisori, cioè giornalieri per rinnovare le provviste.
Nelle fonti a proposito dell’approvvigionamento dei soldati, si parla di “Frumentatio” per le scorte di cereali e “Commeatus” (da: comedere, mangiare) per tutte le altre vettovaglie. Le basi della loro alimentazione erano i cereali e i legumi. Il cereale più usato in era monarchica e repubblicana fu il farro, ancora nel “De bello gallico”, Giulio Cesare afferma che i soldati romani erano mangiatori di farro, ma pure di orzo e avena,
sostituiti più tardi col frumento perchè più nutriente.
Questo è, in sintesi, la base dalla quale partiamo per sviluppare il progetto “pinsa” in Romagna.
Giulio Cesare, nello specifico, sembra aver avuto un ruolo dominante nel passaggio al Rubicone ed egli stesso nella sua opera Il de bello gallico, ci racconta della difficile vita nei castra, che per lui non era uguale ai soldati per ovvi motivi di ceto sociale.
Sua è la definizione“de gustibus non disputandum est”, riportata da Plutarco, mentre era governatore della Cisalpina, dal 59 al 55 a.C. Lo storico narra che una sera il Generale andò assieme ai suoi più stretti collaboratori ospite nella Domus milanese di Valerio Leone. Tra le portate venne servita una magnifica preparazione di asparagi, conditi con il burro. Ai suoi commensali la pietanza non piacque affatto (abituati all’olio d’oliva e non al burro, usato a Roma come unguento), così la indicarono come cibo “barbaro” poco appropriato al loro palato. Di fronte all’imbarazzante situazione Cesare, da uomo intelligente ed avveduto, placò gli animi con la frase:“de gustibus non disputandum est”, placando il disagio del padrone di casa con i suoi poco commendevoli ospiti.
Tra gli ingredienti in uso tra i romani legionari, come lo era l’esercito di Cesare
attraversando il Rubicone, ci sono legumi, verdura, frutta, farro, garum, semi, uova e
carne bianca (tipica del territorio romagnolo). Esiste quindi un legame tra pinsa e territorio di Romagna? Queste ipotesi sono scientificamente filologiche e dimostrano quanto un territorio possa essere ricco di testimonianze ancora più antiche rispetto a quelle che ci si aspetti.
Claudia Fanciullo
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
-Antonietta Dosi- A tavola con i Romani Antichi” (coautore Francois Schnell) – Quasar – Roma – 1985 –
- S. Prete – Il codice di Columella di Stefano Guarnieri. Studio critico – Fano – Tipografia Sonciniana –
1974 – - Marco Gavio Apicio – De opsoniis et condimentis – Amstelodami – apud Janssonio-Waesbergios – 1709
- Nico Valerio -La tavola degli Antichi, Mondadori – Milano – 1989 –
-Antonietta Dosi, Giuseppina Pisani Sartorio – “Ars Culinaria” – Dal Piemonte alla Sicilia, i piatti degli
antichi Romani sulle loro tavole (e sulle nostre) – Donzelli – Roma -2012
-C.G.Cesare, Il De Bello Gallico.
http://www.consorziopiadinaromagnola.it/storia-piadina-romagnola/
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