Ficus! Il dolce frutto degli antichi

Grandi alberi rigogliosi vi crescono… il fico dolcissimo

Omero, Odissea, VIII secolo a.C

Storia

Quando parliamo di fichi non possiamo non ricordare la polpa densa e dolce, la buccia tenera e delicata ma non possiamo considerarli frutti perché tecnicamente non lo sono. Il fico è una porzione di stelo espanso in una sacca e per questo motivo è chiamato “siconio”.

Comunemente questo “frutto” nasce in Asia Minore, l’odierna Turchia e resti fossilizzati risalenti a 9000 anni fa sono stati scoperti in Israele confermando che fosse uno dei primi alberi ad essere coltivato. Testimonianze della sua coltivazione si hanno già nelle prime civiltà agricole di Mesopotamia, Palestina ed Egitto, da cui si diffuse successivamente in tutto il bacino del Mar Mediterraneo.

Le testimonianze storico-archeologiche relative sono tante a cominciare da alcune tavolette sumere del 2000 a.C, da Aristotele che li menzionava nelle descrizioni di coltivazioni e dal suo successore Teofrasto. Anche i Romani li apprezzavano tanto da diffonderli in tutto il Mediterraneo.

Affresco raffigurante un cesto di fichi, Oplontis, Villa di Poppea.

Mitologia

Nella mitologia egizia si parla del fico riferendosi al sicomoro (ficus sycomorus), pianta presente in particolare nell’Africa Orientale e, soprattutto, in Egitto. Il fico era considerato un albero cosmico che simboleggiava l’immortalità. Era l’Albero della Vita, così importante da offrire doni preziosi, come il succo del frutto ritenuto detentore di poteri occulti. Sempre il riferimento alla vita ed alla morte, il legno dell’albero del fico era utilizzato per fabbricare i sarcofagi: questo perché si riteneva che seppellire un defunto in una cassa prodotta con il legno del fico aiutava la persona nel viaggio verso l’aldilà reintroducendola nel grembo della dea madre dell’albero. A testimonia la presenza di questa pianta nell’antico Egitto, esistono delle rappresentazioni della stessa ben conservate presso la piramide di Gizech risalente a circa 4000 anni fa.

Nella mitologia greca il fico era un frutto sacro a Dionisio come anche a Priapo quale dio della fecondità. Della sua coltura ne parlano ampiamente Archiloco (VII sec. a. C.) a Paros (Grecia), Aristotele, Teofrasto e Discoride. Altra curiosa leggenda racconta che l’albero di fico nacque dalla madre Terra quando il titano Siceo per sfuggire all’ira di Zeus (Giove) si rifugio’ presso di lei. Il nome della pianta deriva da una divina fanciulla, Siche (syké in greco e’ il fico) i cui genitori furono capostipiti del mondo vegetale.


Nella mitologia romana il fico era un frutto sacro a Marte. Della pianta del frutto si narra che alle sue pendici furono trovati in una cesta Romolo e Remo alla cui ombra sarebbero stati allattati dalla lupa. Secondo gli antichi il fico, dunque, testimonia la fondazione di Roma. Durante la Repubblica Romana l’albero del fico era considerato di buon auspicio, per questo ogni qual volta la pianta moriva, veniva prontamente rimpiazzata con una nuova. Se accadeva che la pianta si seccava o pativa, veniva vissuto come un segno nefasto, per cui ci si potevano aspettare le peggiori sciagure pubbliche. Per questo motivo i sacerdoti romani ne avevano gran cura.

Coltivazione

La coltivazione del Ficus carica L. è importante per l’evidenza di ben 44 varietà colturali ottenute nel tempo, cifra superata solo dall’uva e dalla pera. Il consumo era tale che se ne importavano ingenti quantità dalla Caria, dalla Siria e dall’Africa ma come si mangiavano? Gli antichi romani mangiavano i fichi freschi non come un dessert ma per accompagnare il pane: Catone riduceva da 5 libbre a 4 la razione di pane ai suoi schiavi quando era periodo di fichi perché molto calorici potevano sopperire alle carenze nutrizionali date da un’alimentazione poco completa. In campagna i contadini uscivano alle prime luci dell’alba per andare a coltivare i campi ma già a metà mattinata consumavano uno spuntino a base di pane e companatico che spesso dipendeva da cosa offriva la stagione: i fichi , ad alto contenuto zuccherino, erano il frutto preferito.

Ovviamente parliamo dei Romani ma non dobbiamo dimenticare gli Etruschi e i Greci. Nonostante Varrone nel De re rustica, asserisse che l’Italia sembrasse un frutteto, non ci sono prove della presenza di alberi da frutto come il fico tranne che a Chiusi. Plinio per esempio ricorda innumerevoli varietà di frutta, dalle mele cotogne alle pesche, melagrane, prugne, pere e ciliegie nelle Naturalis Historia, la maggior parte erano di importazione ma in un testo etrusco tramandatoci da Macrobio si legge <<ficum atrum… pirum silvaticum>>, un elenco di alberi del cattivo augurio tra i quali figuravano il fico nero e il pero selvatico. L’Etruria probabilmente non aveva una grande predilezione per gli alberi da frutto ma molto di più per i cereali ed i legumi, la vite e l’ulivo, probabilmente per una questione di carattere economico.

Tornando alla frutta, non era insolito conservare i fichi secchi nel miele o utilizzarli nelle confetture. Non abbiamo inventato nulla se ci pensate ma sono tutte tradizioni del passato che rivivono con noi. Da migliaia di anni, quindi, i fichi sono stati gustati freschi o secchi e fu proprio il metodo di conservazione appena citato a favorirne il trasporto e lo stoccaggio.

Curiosità

“… veneremque vocat, sed cuilibet obstat” (provoca lo stimolo venereo anche a chi vi si oppone).

Scuola Medica Salernitana


La medicina popolare vedeva nei numerosi semini, circa seicento per frutto, un segno della sua attitudine a favorire la fecondità. A luna crescente le coppie sterili staccavano due foglie da un albero e le mettevano sotto ai rispettivi cuscini perché si pensava avessero il potere di far arrivare dei figli.

Ricetta

Affresco con pane e fichi da Ercolano, I sec.d.C, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Siamo arrivati alla ricetta che abbiamo elaborato per voi sulla base delle tante fonti storico-archeologiche esaminate. Questa in particolare è stata recuperata e rielaborata dal De agri cultura di Catone il Censore. Come abbiamo già affermato precedentemente i fichi venivano consumati come accompagnamento al pane e non come un dolce, grazie alle proprietà nutritive davvero eccellenti. Prevalentemente questo tipo di alimentazione era seguita dagli schiavi che lavoravano i campi ed infatti, lo stesso Catone ci fornisce una lista indicativa dalla quale poter attingere per estrapolare informazioni utili sull’alimentazione:

Cibo per la servitù. Per chi lavora i campi: in inverno 4 moggi di frumento ( 34,5kg), in estate 4 moggi e mezzo (39kg); per il massaio, la massaia, il guardiano, il pecoraro: 3 moggi (26kg); per gli schiavi legati: in inverno 4 libbre (1,2kg) di pane; quando cominceranno a lavorare alla vigna (1,5kg) di pane, finché non cominceranno a mangiare fichi: allora tornerai a 4 libbre…

Pane e fichi, dunque, sembrano essere un connubio davvero perfetto soprattutto dal punto di vista nutrizionale. La preparazione che abbiamo sviluppato mette in chiaro questa unione tra i due elementi e lo fa legandoli attraverso la sperimentazione culinaria.

Dalla ricetta numero 74 ( LXXXIII) del De agri cultura abbiamo creato la base del nostro piatto: una focaccina tonda senza lievito fatta con 250 gr di farina e acqua. Anche se Catone non specifica la tipologia di farina a noi è sembrato più che ovvio utilizzarne una di farro monococco che abbiamo impastato con acqua tiepida fino a creare un impasto morbido ed elastico. Lavato bene le mani come raccomanda Catone (come si DEVE sempre fare) basterà formare dei piccoli dischi schiacciati sottili con le dita e adagiarli su una teglia mentre si prepara il “companatico” a base di spicchi di fichi neri e bianchi, pepe, sale e pecorino a scaglie. Infornare tutto a 250 gradi per 20 minuti circa: più il pane cuoce più diventa croccante ma la parola “depsticium” significa “soffice” quindi noi non abbiamo esagerato con la cottura che risulta sicuramente migliore eseguita nel testo.

Il pane cotto con i fichi è già molto dolce e saporito ma con l’aggiunta di questi ingredienti abbiamo esaltato il gusto del frutto che così è diventato meno stucchevole, raggiungendo un buon equilibrio di sapori.

Claudia Fanciullo

Bibliografia

Catone il Censore, L’agricoltura, Fabbri editori;

Plinio il Vecchio, Storia naturale, Einaudi;

Varrone, Opere, Utet;

Columella, L’arte dell’agricoltura, Einaudi;

A Companion to Food in the Ancient World, quaderni a cura di J.Wilkins e R.Nadeau (2015);

The Routledge Handbook of Diet and Nutrition in The Roman World, a cura di P.Erdkamp e C.Holleran (2019);

E.S.PrinaRicotti, L’arte del convito nella Roma antica (<<L’Erma>> di Bretschneider, Roma, 1983);

J.Andrè, L’alimentazione e la cucina nell’antica Roma, LEG, Gorizia, 2015;

A.Ferrari, La cucina degli dèi, Blu edizioni, 2015;

Centro studi per l’archeologia dell’Adriatico, A tavola con gli antichi, Ante Quem, 2007;

A.Tocci, A. Revelli Sorini, Tacuinum Etrusco, Itinerario d’archeologia gastronomica, Ali&No ed., 2004.