Dieta vegetariana: approccio di ricerca archeo-alimentare

La dieta vegetale dei nostri antenati si dimostra essere elemento quasi sempre presente anche negli scavi e questo avviene perché l’alimentazione si basava, in primis, sulla coltivazione. Importante ai fini della ricerca è conoscere le fasi e tutto ciò che gravita attorno a questi alimenti tanto preziosi per la sopravvivenza. Partiamo dall’inizio però.

Alcuni ricercatori sostengono che in Africa fra 2 e 3,9 milioni di anni fa avvenne un cambiamento nella dieta dei primi uomini che li spinse a cercare nuovi spazi e nuove fonti di cibo. Così emerge dalle testimonianze dei paleontologi che hanno analizzato varie specie di ominidi rinvenute in Etiopia, che si nutrivano di vegetali come tuberi, piante verdi, cavoli, frutti di piccole dimensioni. La volontà di sopravvivere aveva innescato un meccanismo di collaborazione per produrre più cibo possibile.

Molto prima del concetto di coltivazione, le antiche popolazioni preistoriche erano solite consumare bacche selvatiche ed altri frutti che mangiavano li per li come li raccoglievano. Con il passare del tempo la coltivazione e la pratica dell’innesto hanno migliorato le specie tanto è vero che l’archeologia botanica nelle zone del Borneo e nei Paesi asiatici ha rivelato l’esistenza di coltivazioni risalenti a oltre 6000 anni fa. I primi innesti sono registrati durante l’età del Bronzo (3000-1900 a.C) e comprendono uva, fichi, datteri e olive.

Ma perché si scelse di lavorare con gli innesti? Semplicemente perché gli alberi cresciuti da seme producevano frutti dal sapore differente e non uguale a quelli dei genitori, così facendo si cercava di mantenere uno stesso sapore.

In Grecia, Plinio il Vecchio ci racconta che nessun albero fosse stato meglio incrociato come quello della susina così come anche il carrubo utilizzato come dolcificante e addensante in cucina. I Persiani invece utilizzavano le albicocche, i limoni e le arance per creare una gelatina per insaporire i piatti e ancora a Corinto si faceva essiccare una varietà di uva coltivata da oltre 2000 anni.

La diffusione di queste tecniche servì proprio a fare in modo che si sviluppassero anche metodi di conservazione che poi sono molto simili a quelli che utilizziamo noi.

Ci sono poi frutti che hanno una storia particolare alle spalle permeata di archeologia. Si perché a Pompei gli scavi hanno lasciato traccia di un affresco su cui veniva raffigurato un ananas che però giunse ben diversi secoli dopo in Europa. L’ipotesi più accreditata è che l’artista volesse riprodurre una pigna. Nell’Europa occidentale i frutti di bosco furono i primi ad essere coltivati ma nel Medioevo non si potevano consumare crudi perché, secondo il medico Galeno dell’antica Grecia, provocavano febbre ed erano indigesti soprattutto per i neonati fino a quando non si scoprì l’importanza della vitamina C. Galeno credeva che la frutta fosse collegata agli “umori” freddi e umidi ma entreremo nel dettaglio in altra sede.

sx-Rilievo con il banchetto del re Assurbanipal- dx- Galeno
L’ananas sbagliato

Sembra incredibile ma la banana più antica del mondo fu scoperta nel XV secolo in un pozzo per rifiuti della Gran Bretagna.

Addentriamoci però nel mondo delle coltivazioni antiche menzionando gli Assiri che erano soliti coltivare uva, melograni e fichi sin dal IX secolo a.C grazie ai canali di irrigazione come le antiche raffigurazioni di Ninive ci tramandano oppure gli antichi Egizi che, sappiatelo, non producevano solo birra ma coltivavano la vite ed il vino prodotto era per lo più rosso come le anfore mostrano (3000 a.C). Il melone più antico del mondo lo troviamo a Samarcanda in Uzbekistan ed ha all’incirca 2000 anni.

Di sicuro la frutta non era utile solo al sostentamento del corpo ma aveva notevole importanza anche per lo spirito poiché tutti i popoli antichi erano soliti offrire del cibo agli dèi e ai propri avi proprio per far fiorire le colture. Si pensava che il fumo ricavato dalle libagioni arrivasse fino agli dèi e così, in base alle tradizioni si sacrificavano diversi alimenti.

Il problema della conservazione si poneva solo per i frutti carnosi e così ci tramandano le fonti dell’antica Roma dove eranole contadine a preparare marmellate e confetture. Se non si aveva la possibilità di utilizzare il miele perché troppo costoso allora si utilizzava la tecnica dell’essiccazione al sole. Un esempio eclatante è quello dei fichi. ancora oggi nel Cilento per esempio, si essiccano in questo modo e poi si lavorano. la conservazione nel miele non viene segnalata prima dell’inizio del I secolo d.C . Ma la frutta poteva essere conservata nei liquidi ed è questo il caso della Sapa o del Defrutum, il vino di uva passa, vini cotti con i quali si coprivano i frutti ben disposti nelle giare.

Marco Gavio Apicio ci racconta che per conservare le pesche si potevano sommergere di sale, aceto e santoreggia, una sorta di vera salamoia ma niente che assaggeremmo volentieri oggi. Per fortuna nel XIX secolo si riuscì a prolungarne la durata prima con la conservazione dei cibi in scatola e nel XX secolo con la surgelazione.

Parlando di frutta secca invece spesso sottovalutiamo come fosse complesso mangiarli senza degli strumenti adeguati ed invece sono state ritrovati una cinquantina di “schiaccianoci” fatti ovviamente con delle pietre che avevano una leggera depressione al centro, nel punto in cui si mettevano i frutti, schiacciati poi da un’altra pietra, che risalgono a circa 780000 anni fa con resti di ghiande, mandorle e pistacchi. Questi reperti si trovavano in Israele al Ponte delle Figlie di Giacobbe. Tra i frutti menzionati c’erano dunque anche le ghiande che a differenza di altra frutta doveva subire un trattamento di ammollo in acqua per eliminare il sapore dell’acido tannico che le rendeva amare, poi venivano tostate e macinate.

Le nocciole restano invece il frutto secco più ritrovato nei reperti e quindi di sicuro più mangiato.

Lo stesso discorso vale per le verdure. Durante l’età neolitica(10000a.C) gli uomini crearono insediamenti e cominciarono a coltivare i campi con semplici aratri tirati da buoi. Gli Egizi vivevano di agricoltura tanto che venivano rappresentati mentre aravano anche nella vita ultraterrena come dimostra un affresco di Deir-el-Medina del 1200 a. C. Gli stessi archeologi ritengono che l’agricoltura sia nata con la coltivazione di piante selvatiche: invece di raccogliere erbe spontanee dove crescevano, gli uomini raccoglievano i semi e li piantavano vicino casa.

Alla base dell’ alimentazione c’erano anche le verdure. La povera gente aveva i suoi orti da cui traeva il sostentamento necessario e le scorte sufficienti per affrontare periodi di carestie. L’alimentazione a base vegetale della campagna era quindi un misto di colture spontanee e selvatiche e questo alimentò una grande abbondanza tra le specie che però si ridusse notevolmente nel tempo. Le fonti alle quali attingere per scoprire le testimonianze più importanti però si riferiscono al mondo greco-romano: gli agronomi latini da Catone a Palladio, ci raccontano dell’agricoltura
ma molti altri come Columella, si rifanno a testimonianze greche come
l’opera di Magone Cartaginese, autore di un trattato di agronomia in 28
volumi del quale ci restano solo pochi frammenti. Anche Plinio, per
esempio, si rifaceva molto di più ad autori greci come Teofrasto.

Il livello ed il progresso delle tecniche però, determinano inesorabilmente la qualità dell’alimentazione e questa è una delle poche certezze che ci restano nei secoli.

Claudia Fanciullo

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