Una milza ripiena di storia

O Castiello e tu

Quanta logge stasera chiéne ‘e gente!

Se spérdono p’ ‘o ciélo tanta vòce

resate e suòne. Tutte so’ cunténte.

Ncopp’ ‘o Castoéllo sta allumata ‘a Cròce.

E tu addo stàie? Quant’anne so’ passate?

So’ passate tant’anne ‘a chella sera!

Giuvanuttiélle, stévemo appuiate,

ffelice e spenziarate, a na ringhiéra,

e guardàvemo ‘o ffuòco ca sagliéva,

pe’ na scusa … accussì … pe fa’ vedè …

E ogne bomba ca nciélo s’arapéva

cchiù t’accustave azzicco azzicco a me.

E mo addò stàie? Sàccio ca si’ sincera;

saccio ca ogne anno ‘o core tùio sta ccà,

mmiezo a’ festa ‘e Castiéllo; e a chélla sera

saccio ca nun te può mai cchiù scurdà.

Niénte cchiù véco, nu velàrio ròsa

mo tèngo nnanze a ll’uòcchie; niente cchiù

véco, e mme girà attuòrno tutte cosa:

for’a ‘sta loggia ce stàie sulo tu

Pecché, ncopp’ ‘o Castièllo, sulamènte

véco ‘a Cròce allummata? Ma pecché,

for’ a ‘sta loggia, mmiézo a tanta gente,

staséra veco sulamente a te?”.

di Ernesto Coda

La festa di Monte Castello, così definita nel XX secolo, è l’evento commemorativo del miracolo del SS.Sacramento dalla peste del 1656 che interessò anche il comune di Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno.

Portata a Napoli da una nave di soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna, dove era già apparsa nel 1650, si diffuse in tutto il Regno. A Cava la malattia seminò migliaia di vittime: i cadaveri furono seppelliti nelle campagne e non nelle chiese, per evitare che il morbo contagiasse la popolazione. Continue furono le invocazioni fatte ai Santi per scongiurare il male del secolo e la tradizione racconta che fu debellato grazie al pellegrinaggio fatto dal popolo cavese per venerare il Santissimo Sacramento della cappella esistente tra le mura del Castello di Sant’Adiutore.

L’unico prete sopravvissuto espose la Sacra Ostia ai quattro lati della terrazza della fortezza per benedire la Città e così nacque la famosa Festa di Castello che da allora si svolge ogni anno nell’Ottava del Corpus Domini.

La festa fu anche arricchita dalla presenza dei Cavesi armati di pistoni, di cui ogni cittadino era fornito, dal momento che ognuno doveva essere pronto ad accorrere alle armi non appena la campana di S. Liberatore avesse suonato a martello.
Questa tradizione è rimasta immutata fino ai nostri giorni, con l’aggiunta di una lunga serie di spari di pistoni, in segno di giubilo e ovviamente accompagnata dalle tradizionali ricette giunte sino a noi grazie ad intere generazioni. Ogni famiglia segue il suo ricettario ma ci sono alcune ricette che restano immutate nel tempo.

Cosa si mangiava durante le festività?

Le pietanze simbolo di questa festività sono molte ma tra queste ne ho sempre apprezzate alcune: la pastiera zucchero e cannella, la milza imbottita e le melanzane al cioccolato. Appartengono al nostro ricettario di famiglia, infatti era mia nonna che le preparava durante la festa. Per fortuna a Cava esistono delle gastronomie che ripercorrono le orme storico gastronomiche cittadine per non perderne traccia e continuare il lavoro di divulgazione storico culinaria.

In questo articolo analizziamo la famosa “mevz mbuttunat” o milza imbottita.

La milza cotta e ripiena necessita di una lunghissima preparazione che le nonne erano solite fare proprio prima della festa. Non è insolito, ancora oggi, sentire nell’aria un odore acre di aceto e fresco di menta. Nel caso della milza, così come per le altre preparazioni, non rispecchiano effettivamente una tradizione in quanto tale ma rappresentano il periodo e la festività che identificano.

Non è raro ritrovare ricette simili in diverse regioni, basti pensare che a Cava dei Tirreni la ricetta del fegato con la “rezza” o retina e con l’alloro è uguale a quella che troviamo in Romagna e ancora la milza stessa la ritroviamo sulle strade siciliane servita, in quel caso, nel pane.

Quanto era importante il quinto quarto in antichità?

La cucina povera utilizzava tutto quello che potesse essere commestibile di un animale è questa la base popolare della cucina antica.

Da cibo plebeo a scelta quasi ricercata e raffinata dei ristoranti, il quinto quarto è il risultato di una cucina genuina e saporita che segue la filosofia del non-spreco: la pietanza, infatti, comprende una serie di parti dell’animale come la trippa, i reni, cuore, polmone, fegato, milza, lingua, cervello (in pratica, i due quarti anteriori e i due quarti superiori dell’animale).

Se volete cimentarvi in questa ricetta allora non potete saltare questo paragrafo che poi è il succo dell’articolo perché vi indicherò come prepararla.

Ingredienti: per un chilo di milze di vitello, 100 grammi di lardo, un mazzetto di prezzemolo e di menta, tre peperoncini, tre spicchi d’aglio. Alcune versioni prevedono il mosto cotto in aggiunta ma “De gustibus non disputandum est” diceva Giulio Cesare.

Come si prepara: la milza viene suddivisa in due parti dal macellaio, accuratamente pulita (si toglie la pelle) e tagliata ad un’estremità per permettere, successivamente, imbottitura di prezzemolo, menta, peperoncini, spicchi di aglio e lardo, opportunamente pestati. Richiudere l’estremità della milza, porla in una pentola abbastanza alta contenente uno spicchio d’aglio (e solo quando quest’ultimo ha raggiunto un colore biondastro), versare 150 grammi di olio e un peperoncino; a questo punto, aggiungere circa un litro di acqua, 300 g. di aceto e sale quanto basta non appena la milza si è ben rosolata. Cuocere a fuoco lento per 2 ore (se la milza è tenera) o 3 ore. Aggiungere un po’ di menta, avendo cura di capovolgere la milza e aggiungere l’aceto. Servire fredda.

Come possiamo constatare, i nostri Antenati sono ancora tra noi, soprattutto con le loro credenze, i loro riti, le loro usanze, la loro religiosità, il loro linguaggio, dopo millenni, nelle nostre tradizioni popolari.

Le popolazioni italiche prima, i Romani poi ed il popolo germanico dei Longobardi, hanno plasmato il nostro modo di essere odierno: il loro tributo, sia a Salerno che in tutta la Penisola, è ancora fortemente tangibile e continua ad essere tramandato.

Scritto, mangiato e fotografato da Claudia Fanciullo.

Ricetta cucinata da Macelleria la Scottona di Cava de’ Tirreni (SA). Foto rievocazione storica da IlPortico.it .

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BIBLIOGRAFIA

Morese, Francesco Maria, 1976-L’eredità degli antenati: il lascito ancestrale di Italici, Romani e Longobardi nel folklore di Salerno tra religiosità popolare e sopravvivenze pagane, Luigi Pellegrino editore, 2019.

A.Domenico, La festa di Castello di Cava, Mitilia Editrice, Cava de’ Tirreni, 1990;

S.Argenziano e A.Langella, La peste del 1656 a Napoli, aspetti storici, sanitari, religiosi e curiosità, vesuvioweb, 2012;

S.de Renzi, Napoli nell’anno1656, ovvero documenti della pestilenza che desolò Napoli,. Domenico de Pascale, Napoli, 1867;

Sitografia:

http://www.entemontecastello.it/festa.xhtml