
La cucina per gli antichi romani era un argomento molto serio e non solo per il cibo portato a tavola ma per il valore sociale, politico ed economico che veniva fuori dai discorsi fatti proprio durante i pasti. Ancora più importante era l’antipasto o gustatio, per esempio, che serviva a mettere i commensali del giusto umore per far sì che l’intero banchetto andasse bene: un buon piatto poteva anche stemperare dei dissapori.
Tra gli antipasti preferiti dell’imperatore Adriano ma anche dei patrizi, c’era un piatto a base di albicocche, il Gustum de Praecoquis, menzionato nel De re Coquinaria di Marco Gavio Apicio che, come tutti i romani, considerava questi frutti estremamente preziosi. Obbligatorio non raccoglierli già troppo maturi ma lasciarli maturare con calma dopo perché il gusto doveva essere dolce ed era vietato utilizzare cibi acerbi. I romani inoltre chiamavano l’albicocca col nome di “mela armena” perché pensavano venisse proprio dall’Armenia. In realtà questo frutto arrivava da più lontano, dalla Persia oppure come molti fonti indicano, dalla Cina. L’Oriente dunque era la madre di questa primizia così succulenta. Fu Alessandro Magno ad introdurla sul Mediterraneo ma i romani la diffusero, mentre durante il Medioevo se ne bloccò la coltivazione. Grazie agli Arabi nel X secolo l’albicocco fu riutilizzato però a scopi farmacologici, infatti tra le tante proprietà si segnala che la sua polpa, vivace e preziosamente profumata, oltre ad essere piuttosto nutriente è ricca di sali minerali e vitamine, utili nella terapia delle anemie, dei difetti della vista e del mal d’orecchi. Nella cosmesi l’albicocca è stata sempre utilizzata per la cura della pelle perché l’olio ottenuto dai suoi semi, racchiusi nel nocciolo, è molto efficace sia per il trattamento delle smagliature che delle rughe.
Particolarmente digeribili i frutti di albicocca sono assimilabili anche da chi ha disturbi dell’apparato digestivo.
Quindi non è un frutto banale ed, in effetti, tra Oriente e Occidente, quando poi si è ritrovata a dover crescere alle pendici del Vesuvio, la buccia è diventata rossa come le gote delle dolci fanciulle innamorate. Che si fosse “emozionata” per il terreno ricco di sali minerali, il sole forte e l’aria di mare lo si poteva intuire dal gusto molto intenso della polpa. Ma perché si chiama praecoquis? In origine il nome dell’albicocca, che deriva dal latino praecocum, letteralmente significa «precoce». Con questo termine i romani inizialmente chiamavano tutte quante le primizie ma fonti attribuiscono questo nome anche ad una tipologia di pesca tipica del sud Italia, la Percoca, a polpa gialla dolce se ben matura e aspra se ancora poco gialla. Passiamo però alla ricetta.

La prima cosa che dovete fare é cercare delle albicocche mature ma senza ammaccature, metterle in ammollo in acqua per pulirle bene e poi togliere il nocciolo. La buccia io l’ho lasciata per le proprietà nutritive ma se volete toglierla potete tranquillamente anche se nella ricetta originale non è specificato. Fate a pezzi grossolani le vostre albicocche e riponetele in una ciotola: devono pesare un chilo.
Dalla ricetta di Apicio (4, 5, 4) che come sapete non lasciava informazioni utili sulle dosi, abbiamo ricavato queste quantità:
- 1 kg di albicocche o nettarine mature sode
- 200 ml di vino bianco
- 250 ml di Passito
- Menta essiccata (una tazza)
- Pepe macinato (una tazzina da caffè)
- Sale o Liquamen/ garum (poche gocce o un filo)
- Amido di frumento o farina di carrube (q.b per addensare quindi circa 2/3 cucchiai rasi)
- Aceto (un cucchiaio)
- 350 gr. di miele
- Olio evo (un cucchiaio)
Intanto preparate gli altri ingredienti che verranno aggiunti nel momento in cui inizierete la cottura: miele (millefiori), menta, pepe, vino passito, vino bianco, liquamen o sale, aceto di vino bianco, olio evo e amido.
La questione amido è davvero importante sia per dare consistenza al composto sia per rendere le nostre albicocche davvero lucide, ma quale amido utilizzare? Andando a ricercare gli ingredienti purtroppo ci siamo imbattuti in errori madornali e scelte non attendibili che alterano completamente la ricetta. NON UTILIZZATE AMIDO DI MAIS come abbiamo visto fare (ahimè) perché non c’entra nulla col periodo romano ma fu portato in Europa da Cristoforo Colombo nel 1493. L’amido utilizzato dai romani era un addensante di frumento, l’amylum, e lo stesso Plinio il Vecchio (Nat.Hist. Liber XVIII,17) ce ne parla raccontandoci di come venisse preparato e che il migliore fosse quello prodotto dal frumento maturato tre mesi e tale pratica fosse arrivata a Roma dall’isola di Chio (Mar Egeo).
…Amylum vero ex omni tritico ac siligine, sed optimum e trimestri. Inventio eius Chio insulae debetur; et hodie laudatissimum inde. est appellatum ab eo quod sine mola fiat. proximum trimestri quod e minime ponderoso tritico. madescit dulci aqua in ligneis vasis, ita ut integatur quinquies in die mutata; alius si et noctu, ita ut misceatur pariter.
…77 emollitum priusquam acescat, linteo aut sportis saccatum tegulae infunditur inlitae fermento, atque ita in sole densatur. post Chium maxime laudatur Creticum, mox Aegyptium (?), probatum autem levore et levitate atque ut recens sit(?), iam et Catoni dictum apud nos.
Si potevano utilizzare talvolta anche tritati di noci, pinoli, nocciole, datteri, prugne, uova e pane sbriciolato. Dioscoride, uno dei primi che ne fa menzione, dice che il nome di amido (lat. amylum) deriva da ἄμυλον (sottinteso ἄλενρον) cioè ” (farina) non molita” e difatti è una sostanza farinosa che si può ottenere senza l’uso della macina (ἀ-μύλη) ma è frumento e non mais.
Noi utilizziamo, quindi, l’amido di frumento, facilmente recuperabile, oppure la farina di carrube come testimoniano i reperti archeologici ritrovati a Pompei. Il carrubo è un albero molto antico e fa parte di quel gruppo di piante che produce frutti dimenticati, tra l’altro altamente digeribile e senza glutine. Chiusa la parentesi amidi, riapriamo quella del procedimento per la ricetta.
Presi tutti gli ingredienti iniziate a cuocere le albicocche a fiamma bassa con un filo di acqua e non appena iniziano ad ammorbidirsi versate prima il vino passito, la menta, il pepe, il sale o il liquamen( pasta di acciughe e aceto oppure colatura di alici che è più simile al garum) il vino bianco, l’aceto e il miele. Fate sobbollire per circa 30 minuti poi aggiungete l’amido e fate restringere sempre a fuoco lento. Raffreddate, pepate ancora e servite, con un filo di olio evo, come accompagnamento al formaggio di capra oppure ad una caciotta semi-stagionata. Conservate in frigo per circa 4/5 giorni.

Scritto e cucinato da Claudia Fanciullo
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